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Pezzi

Tra i talenti che ho c’è quello di rompere tazze e bicchieri. E incapace di contare gli infiniti frantumi che adesso ti trovi davanti, prendi scopa e paletta, raccogli e butti. Dopo quell’immancabile momento di sorpresa, perché accade sempre così, non è intenzionale, non è cercato, non è previsto, accade e basta. E in un secondo un oggetto cambia.

Pezzi. Ci troviamo con mille pezzi. Non importa se sono solo tre, per noi sono mille. Pezzi. Non solo di cose che si rompono, ma di cose scollegate che non si capisce se sono parti dello stesso puzzle, ma tu ne sei il loro elemento comune, fanno parte della tua vita. Pezzi. Frammenti, ricordi lontani, passioni dimenticate, vaghi sentori, schegge nell’anima. Trucioli di vita, residui di eventi, ferite, perdite, tentativi, fallimenti. Pezzi di vita, di forme e dimensioni e colori e pesi diversi.

In quanto TUOI, hanno ciascuno un valore.

Con quanta facilità e velocità prendiamo scopa e paletta e pensiamo di buttare via qualcosa che fino a un secondo prima aveva motivo di esistere e di essere su uno scaffale, sulla scrivania, nell’armadio, nel cuore.

E infatti buttiamo, ma non è vero che non ci sono più. Certo rimpiazziamo con un nuovo bicchiere, ciotola o tazza. Continuamo a bere, dispaciuti che la tua tazza preferita era più bella, più efficace, più leggera, più tonda, più… quei pezzi hanno lasciato cicatrici che se non curate a dovere non solo restano dolorosi memento mori (dei nostri sogni, speranze, del nostro essere, la nostra fragilità, dei nostri salti verso voli più alti), ma sono anche presenze di cui non sappiamo sempre cosa fare.

Qualche settimana fa stavo convidivendo un pensiero con uno dei miei coach e mi sono resa conto che parlavo della mia creatività parcheggiata come un arto del mio corpo che è stato strappato ripetutamente nella mia vita e riattaccato altrettante volte con dei punti di saturazione. E le cicatrici sono dolorose; il processo di continuo strappo e riattacco non solo è una spina presente che trafigge e che non può essere rimossa, ma è sempre più profonda, acutizzando il dolore e rendendo il riattacco o ristacco più recente più pesante.

Ho compreso con una profondità e chiarezza nuove che la creatività è parte di chi sono. Non era una novità in sè, ma l’immagine dell’arto rimosso sì, rende lampante che è un pezzo che, quando è mancante, mi debilita, non è un hobby simpatico che occupa il mio tempo, è direttamente collegato alla mia identità. Ho cambiato immagine, nel contesto di quel momento, ed è diventato un vagone di un treno di cui io sono la locomotiva.

Ed è qui che non so come, ho scoperto l’esistenza del kintsugi. Un’arte giapponese, del non buttare via i pezzi ma di rimetterli insieme valorizzandoli con l’oro, che non solo rende visibile le fratture, ma le esalta al punto da trasformare l’oggetto. E questo sarà un filone che mi accompagnerà quest’anno. Ho cominciato a sperimentare e sto raccogliendo già input importanti, ma ho capito che prima di riaggiustare, c’è molto di più. Condividerò magari un po’ di queste scoperte qui, ogni tanto.

Anche questi post sono pezzi, di me, pezzi sparsi, pezzi che possono sembrare lontani (nel tempo) l’uno dall’altro. Se volete cominciare a pensare a quali pezzi pensate di aver buttato via e i cui bordi tuttavia graffiano ancora un po’ la vostra anima, forse troverete anche voi utilità nel prendere il tempo che serve e non a voler curare di fretta qualcosa che è importante.

Come sempre tutto parte da qualche punto. E il mio inizio è:
ci sono dei pezzi. E la prima domanda è: cosa ne faccio?

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